
Ho superato da parecchi mesi gli ottant’anni e non ho ancora vinto la ritrosia a parlare in prima persona. Il motivo è sempre stato che l’“io” altrui è odioso e ingombrante. La maggior parte delle volte, quando il prossimo parla di sé, lo ascoltiamo per mera cortesia e aspettiamo soltanto che la finisca. Coerentemente, ho sempre cercato di seccare il prossimo il meno possibile. Forse, quando ci sentiamo costretti a parlare di noi stessi, dovremmo dare soltanto nome e cognome, come i prigionieri di guerra. Anche se loro aggiungevano corpo di appartenenza e grado.
Alla regola del non parlare di sé si possono tuttavia fare delle eccezioni. Se Primo Levi ha parlato della sua detenzione in un campo di sterminio, è stato perché l’umanità sapesse e non dimenticasse. Se S.Agostino scrive le Confessioni, è per mostrare in che modo è arrivato alla fede. Esattamente come Rousseau, anche lui autore di “Confessioni”. Solo che Rousseau voleva mostrare come in lui si fosse incarnato “l’uomo della natura” che predicava. E che per fortuna non è stato imitato.
Non ho letto questi tre libri. Ho invece letto i “Saggi” di Montaigne. Perché qui l’io non è quello di Michel, è quello di tutti. Se mai ci fu un uomo che non si concentrò su di sé, fu proprio questo dolce filosofo. Se parla in prima persona è perché ha l’impressione di parlare con gli amici. E i lettori del resto hanno la sensazione di incontrare in lui un amico.
Montaigne non è narcisista e non scrive per vantarsi. Non è impudico e non scrive per raccontarsi. Non presenta nemmeno le sue considerazioni con il sussiego e l’autorevolezza dell’impersonalità. Come ha detto La Bruyère, ci si accosta alla sua opera per leggere un libro, e si incontra un uomo. Un amico, appunto. E nel mio piccolo, seguendo l’esempio di Montaigne, amerei mostrare come si intreccino i diversi aspetti del mio modo di essere che a volte, nel corso degli anni, hanno sorpreso gli amici.
Lo scopo di questa esposizione è fondamentalmente quello di mostrare che molte posizioni esistenziali sono ibride, e questa chiacchierata potrebbe servire ad avere le idee chiare sulla propria coerenza, in relazione alla scelta effettuata.
L’evento più importante della mia prima adolescenza fu l’incontro con un giovane, allora liceale, il quale era profondamente credente (tanto che poi si fece prete) e cercò di “convertirmi”. Forse si rese conto del tipo con cui aveva a che fare, e certo non fece appello ai buoni sentimenti. Benché io avessi dodici o tredici anni, il suo apostolato fu portato avanti a base di filosofia. La sua tesi era che il cattolicesimo era una dottrina razionale, interamente dimostrata dalla A alla Z, prova ne sia che cominciò provandomi l’esistenza di Dio. Così conobbi Aristotele e San Tommaso ben prima dei quindici anni e presto divenni furiosamente credente anch’io. Sarei anzi stato contento di incontrare qualche miscredente per metterlo con le spalle al muro con la mia dialettica. Qualcuno ogni tanto mi chiedeva se intendessi andare in seminario ed io rispondevo che non se ne parlava neppure, non amo le scelte irreversibili.
Questo momento della mia giovane vita fu importantissimo perché non si trattò di “aggiungere” la fede alla mia vita normale, ma di “interpretare il mondo alla luce della fede”. Forse è questo che gli scrittori cattolici intendono con: “Rinascere in Cristo”.
In quegli anni non conoscevo la solitudine, perché Gesù era con me. Non avevo perplessità, perché ogni cosa mi era stata spiegata. La mia vita aveva un senso, e l’aveva quella dell’umanità intera. Del resto, anche l’Universo aveva un senso. È vero che la sua vastità sconfinata poteva apparire assurda, se tutto era stato creato in funzione dell’uomo, ma era anche vero che Dio, essendo onnipotente, non aveva problemi di costi, neppure per creare un cielo stellato. Dio era anche la sorgente delle regole morali, sociali, umane. La fede costituiva una sistemazione del reale senza residui e senza falle. Non c’era che da seguire la via tracciata, per infine giungere alla visione beatifica di Dio, che altri chiamano Paradiso.
Tutto ciò durò due o tre anni, poi la mia razionalità prese il sopravvento. Cominciai a formulare delle obiezioni e a proporle ai miei amici preti, rimanendo sempre più impressionato dalla loro incapacità di resistere alle mie osservazioni. Per esempio, essi obiettavano che lo spazio non può essere infinito perché infinito è solo Dio, ed io ancora credente, dicevo che, recatomi al confine dello spazio, avrei sempre potuto tirare una pietra verso l’esterno, creando ulteriore spazio. E loro si contorcevano senza sapermi rispondere. Poi le obiezioni divennero sempre più serie e infine qualcuno mi consigliò di rivolgermi alla fonte. Così un mio cugino mi regalò una riduzione in cinque libri della Summa Theologica di S.Tommaso e fu benzina sul fuoco.
Già molte delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio facevano ridere. Che diamine voleva dire che, visto che gli uomini avevano sete di giustizia, e sulla Terra non c’era giustizia, “doveva necessariamente esserci” un Dio che un giorno rispondesse a questa sete di giustizia? Se un uomo ha sete, ciò non dimostra l’esistenza di una fontanella nelle vicinanze. E se su un’isola deserta non c’è acqua, e ci sono mille persone assetate, sarà pure orribile, ma anche se quelle persone sono numerose, non per questo non moriranno. E lo stesso per la sete di felicità (argomento pomposamente battezzato “eudemonologico”) e per altre dimostrazioni ancora. Ma soprattutto le mie obiezioni sulla concezione dell’anima immortale divennero così puntute e incalzanti che non soltanto nessuno sapeva controbattermi, ma quando addirittura andai a parlare con un famoso teologo della città, questi mi confessò che, “come le formulavo io”, quelle obiezioni non avevano risposta.
Non avevo ancora compiuto sedici anni, ma fu come se il Cielo mi fosse caduto sulla testa. Se non abbiamo un’anima immortale, tutta la religione viene giù. E con essa tutto ciò che ad essa è collegato.
Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio che dànno i filosofi, i preti, e perfino S.Anselmo non stanno in piedi. Inoltre quand’anche ci fosse un Dio creatore, se questo Dio non fosse provvidenziale, se cioè non si occupasse degli uomini (come infatti credevano Aristotele e Voltaire) la sua esistenza o non esistenza sarebbe del tutto ininfluente. Se nella mia città non c’è una banca o se nessuna banca mi fa credito, il risultato per le mie finanze è identico.
Con l’anima e con Dio non spariva soltanto la religione. Spariva il fondamento della morale. Spariva il senso della mia vita. Anzi, spariva il senso della vita dell’intera umanità. La sua stessa esistenza andava a far parte della zoologia. Spariva d’un sol colpo l’intero soprannaturale. Non c’era altro da vedere, altro da scoprire, altro da cercare. La realtà non era l’apparenza dietro cui c’era la sostanza, ma quell’apparenza era tutta la sostanza.
In una parola, come prima ero stato un credente che si alzava presto e andava in chiesa a comunicarsi, digiuno, per poi correre a scuola, nello stesso modo ricostruii pazientemente e testardamente la mia nuova realtà sulla base della pura materia. Materia era il mondo, materia era l’universo, materia era tutto ciò che mi circondava, materia ero io. Niente aveva senso, niente aveva scopo, niente aveva una spiegazione. Io non ero più importante di una mosca, e come una mosca sarei scomparso senza lasciare traccia.
Imparai a non fare l’esame di coscienza la sera, a non dire le preghiere, a non parlare con Gesù, nel mio intimo, dicendomi che sarei stato un pazzo, se l’avessi fatto. Non c’era nessuno, nel mio intimo. Forse non c’ero neanch’io, nel senso che il mio pensiero era soltanto l’attività delle cellule del mio cervello. Ero un accidente naturale come gli animali, le piante e le nuvole. La Terra era una palla impazzita e inutile che girava intorno al Sole, tutto l’universo era un’enorme macchina che girava a vuoto. E anch’io non ero nulla, non potevo sperare in nulla, ero solo, assolutamente solo e insignificante.
In quegli anni senza amici, senza dialogo e senza speranze ho sofferto come mai più in seguito. Ero un disadattato e neanche nella mia famiglia mi sentivo a mio agio. Questa crisi dell’esistenza l’ho assaporata fino all’ultima goccia di fiele per tre o quattro anni.
Mi dilungo su questo argomento non per raccontarmi ma per far vedere come l’ateismo è parecchio di più di ciò che crede la gente. La morte di Dio lascia uno spazio molto più grande di un altare vuoto. Se si chiede chi è un ateo, la risposta è: “Uno che non crede all’esistenza di Dio”. E addirittura probabilmente questa è anche la definizione che darebbe di sé lo stesso ateo. Ma questa definizione, se non è erronea, poco ci manca.
Infatti non è un ateo chi crede nel dovere di farsi una famiglia e di avere dei figli, chi crede che tutti debbano giudicare “male” la pornografia, chi è convinto dell’infinito progresso dell’umanità, chi è sicuro che la sua vita ha un senso e uno scopo, chi pensa che tutti abbiamo il dovere della solidarietà umana, e mille altre cose di questo genere. Forse non crede a ciò che raccontano in chiesa, ma non sa quante ammissioni di “verità” ci siano, nelle idee correnti, di cui non si è reso conto. Cose che ha accettato senza alcuna dimostrazione e che tuttavia guidano la sua vita. L’ateo normale sarebbe sorpreso e offeso se gli si dicesse: “Sei ateo? Allora non sei diverso da un maiale”. Ebbene, il vero ateo dovrebbe rispondere: “Proprio così”. E non per guasconeria, semplicemente perché è la pura verità. Tutta la nobiltà dell’uomo, tutta la nostra superiorità sugli animali e sul resto del nostro pianeta, è pura leggenda. Non c’è niente che dimostri questa superiorità, a parte la nostra vanità. Saremo più intelligenti di un cane, ma questa non è una vera differenza, è soltanto una questione di grado. Il cane potrebbe dire alla tartaruga che fra loro c’è una differenza abissale, perché lui, il cane, è molto più intelligente. E avrebbe ragione. Ma perché mai la frontiera essenziale dovrebbe essere fra la tartaruga e il cane da un lato e noi dall’altra, e non fra noi e il cane da una parte, e la tartaruga? Il salto è maggiore fra un mammifero e un rettile che fra due mammiferi superiori.
Ecco il punto centrale di questa confessione. Si può ammettere l’esistenza di Dio, si può ammettere la concezione corrente della realtà, si può perfino essere molto religiosi, purché si sappia che si stanno ammettendo delle cose indimostrate e indimostrabili. Vi conviene vivere così? Fatelo, ma non escludete Dio, che non è la più assurda delle vostre convinzioni.
E se al contrario non si crede all’esistenza di Dio, e neppure a tutte le cose che alla gente sembrano ovvie, allora l’opera di decostruzione è molto più complessa e radicale del semplice ateismo “teologico”, quello che si limita a negare Dio. Infatti il creatore è il riassunto finale della metafisica, cioè il fondamento di tutto e la spiegazione di tutto. Senza di lui, crolla anche il resto, nulla ha fondamento e nulla ha una spiegazione. La realtà – materiale e meccanicistica – si constata soltanto. E non ha bisogno di sapere perché è.
Il collegamento fra tutte le credenze che creano la nostra normale mentalità e Dio è più forte di quanto non si pensi. Da un lato abbiamo creato Dio per dare un senso e un nocciolo a tutto ciò che pensiamo, dall’altro se neghiamo Dio togliamo il senso e il significato a tutto ciò che crediamo normalmente. Le dimostrazioni di San Tommaso, secondo cui Dio deve esistere perché gli uomini hanno bisogno di una risposta ai loro aneliti e alle loro speranze, è più profonda di quanto credesse lo stesso Aquinate. E infatti, precedendo lo stesso Feuerbach, Tommaso ha dimostrato, invece dell’esistenza di Dio, l’esistenza del bisogno degli uomini di crearlo.
È inverosimile a che punto tutti noi abbiamo accettato senza saperlo una serie di codici. Ecco un esempio. Per l’italiano normale la morale è quella che insegnano i preti nelle chiese. Poi molti perdono la fede, si dicono miscredenti, ma a quella morale continuano a credere. E se interrogati vi diranno che quella morale è “naturale”. Soltanto che poi non saprebbero che cosa rispondere se gli si facesse notare che le regole morali sono diverse nei diversi luoghi e nelle diverse epoche. Mentre, essendo una la natura umana, dovrebbe esserci soltanto una morale.
Il profano a questa obiezione non saprebbe rispondere, ma saprebbe farlo Immanuel Kant. Questi, essendo un genio, per la morale ha creato un fondamento astratto ed universalmente valido. La morale, a suo parere, deriva dall’imperativo che ciascuno di noi sente in sé. Una voce che gli dice “tu devi” senza che sia necessario spiegargli perché deve.
Ottima posizione teorica. Ma Kant credeva in Dio e poteva pensare che Dio avesse posto questa molla morale nel cuore di tutti gli uomini. L’ateo invece, non potendo accettare questa ipotesi, potrebbe rispondere che quel “tu devi” è la voce dell’istinto, del condizionamento o perfino dell’abitudine. Niente di morale, dunque. Sicché, prima di obbedire a chi mi dice “tu devi”, io rispondo: “E perché devo?” Tanto che, se non riesco a darmi una risposta valida, l’intera morale svanisce nell’aria. Personalmente rispondo: “Io ‘devo’ perché la mia vita è facilitata se mi comporto da persona perbene”. Questo è il fondamento della mia morale. E mi basta. Ma il fatto che io abbia il potere di giudicarla, di accettarla o respingerla, le toglie ogni valore generale o metafisico.
Analogamente sorrido quando mi sento dare del pessimista. Molti mi imputano questa posizione perché credo a quello che vedo e lo dico senza addolcimenti. Per me non vale niente l’argomentazione napoletana per cui “pare brutto” dire certe cose. Una cosa è vera o falsa, ecco che cosa importa, non il suo sapore. Se gli uomini si comportano da egoisti, io credo che gli uomini siano egoisti. E tutti i discorsi sulla solidarietà umana, tutti i ditirambi su personaggi come Gandhi o Madre Teresa di Calcutta mi lasciano indifferente.
Non soltanto gli uomini sono egoisti, e non soltanto le eccezioni non contano, ma c’è il sospetto che anche i santi siano egoisti, nel senso che amano il superamento di sé come certi rocciatori che rischiano la vita solo per conquistare una vetta che non li aspettava e non si commuoverà certo vedendoli arrivare. Lo sforzo per lo sforzo, lo sforzo per il record, o anche la compensazione di chissà quali abissi di problemi psichici non sono atti di generosità.
Molti credono che la miscredenza e l’ateismo siano posizioni comode, una sorta di libera uscita, di autorizzazione a divertirsi e a non tenere conto di nessun vincolo. È una stupidaggine. Il superficiale non si pone neppure il problema morale o metafisico. L’ipocrita trova più comodo levarsi il cappello dinanzi ai principi comuni e nella sostanza fare tutto ciò che vuole. Perfino un genio come Blaise Pascal si lascia andare a questa spregevole posizione, quando parla della sua famosa “scommessa”. Egli si chiede e ci invita a chiederci: “Che cosa rischio, a credere in Dio? Se esiste mi accoglierà in Paradiso, se non esiste non avrò perduto niente”. Insomma fa l’ipotesi di credere in Dio per paura e per pura convenienza. Forse quel giorno aveva voglia di scherzare.
Se ho raccontato una parte della mia giovinezza è stato per sottolineare che per la persona pensosa un ateismo rigoroso è impresa terribilmente ardua. Infatti l’assenza di Dio impone una risistemazione della realtà senza parapetti, senza sostegni, senza la benché minima illusione consolatoria. In un vecchio libro, tanti anni fa, un personaggio ammoniva un amico che, comportandosi in quel modo avrebbe avuto problemi, guai e vermi. “Vermi?” chiedeva l’altro, sorpreso. “Vermi. Nella cassa da morto, chi credi che verrà a visitarti?” Ecco, questa è la visione della vita dell’ateo. Quello che accetta di essere il fratello del maiale, quello che accetta la puzza di carogna che farà dopo morto. Quello che accetta la realtà com’è.
Ora qualcuno mi chiederà se mi sento di consigliare un simile punto di vista.
Innanzi tutto, sono costretto a dirvi che non m’importa abbastanza del prossimo per invitarlo ad essere in un modo o nell’altro. La salvezza intellettuale dell’umanità in direzione della verità non soltanto non dipende da me, non soltanto è impossibile, ma è perfino inutile. Se un uomo si illude per tutta la vita e muore felice, ha fatto un affarone. Forse è l’uomo di massimo successo e mai gli direi che si è illuso. Nulla vale più della felicità.
In secondo luogo a me, dopo essere riuscito ad accettare la realtà com’è, è riuscito di risalire dal fondo dell’abisso fino ad una costante serenità intellettuale che mi ha accompagnato per più di sessant’anni. E se non sono sicuro che a un altro riuscirebbe la stessa impresa, con quale coraggio potrei consigliargli quella via?
L’unica cosa che mi piacerebbe trasmettere è un chiarimento. Non pensate che credere in Dio o non credere in Dio consista in una semplice dichiarazione. Se accettate la morale corrente, se vi inchinate e tutte le regole del vostro ambiente, in base alle quali ogni cosa va fatta o non va fatta, se siete convinti che “c’è qualcosa di importante al di là di tutto ciò che vediamo” e via di seguito, sappiate che, con Dio o senza Dio, siete dei credenti. Che cosa c’è, esattamente, cinquanta chilometri sotto i miei piedi? Non lo so e non lo saprò mai, è un mistero, ma un mistero insignificante. Che sia roccia o magma non cambia nulla, per me. E certo non mi rende né felice né infelice. Non sappiamo tutto, è vero, ma sappiamo abbastanza per piangere sulla nostra insignificanza e sulla nostra miseria di esseri umani.
Se volete essere dei miscredenti dovete smettere di credere a tutto, perché la maggior parte delle cose che vedete sono sovrastrutture. Guardate il vostro gatto, se ne avete uno, e ditevi che la realtà la vede meglio lui di come la vedete voi. Un gatto non si chiederà mai che senso ha la sua vita, se ci sia un Dio o no e se avremo qualche esperienza dopo la morte. Distinguerà la fame e la sazietà, il freddo e il caldo, l’affetto o la crudeltà, e li vivrà nella loro immediatezza, senza vederci niente dietro, e senza credere che la vita in generale sia gioia o sia dolore. In questo senso la sa più lunga di noi, perché non si racconta stupidaggini. E se è felice è l’esempio da seguire.








